Stavo andandomene a letto, quando dall’agregatore è balzato fuori un post di Roberto sulla pizzata comasca che chiude con un elogio a Terragni. Ho iniziato a scrivergli un commento ma alla fine diventava un po’ lunghetto, così ho pensato di farne un post e corredarlo magari di qualche immagine che si capisce meglio.
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Da architetto (non praticante) trovo affascinante la galleria di immagini dei “770″, i centri della setta ultraortodossa dei Lubavitchers, segnalata oggi da Kottke.
I “770″ sono repliche sparse per il mondo (ce n’è una anche a Milano) del primo immobile acquistato dalla setta a Brooklyn nel 1940 al numero 770 di Eastern Parkway, ed esemplificano un tema che mi è sempre stato molto caro, in assoluta antitesi a molte delle teorie del modernismo/razionalismo che spesso la fanno ancora da padrone: la necessità di un linguaggio simbolico condiviso, comprensibile e non astratto tramite cui dare significato a un’opera, che sia edificio, quadro o oggetto di design.
Il linguaggio dei “770″ è grossolano, dato che è la forma stessa dell’edificio a diventare simbolo, ma forse per questo tanto più forte e chiaro soprattutto per chi capisce poco o nulla di architettura. E lo straniamento di un edificio di mattoni di Brooklyn trasportato di peso tra le case bianche di un paese israeliano, o compresso in mezzo ai grattacieli di Buenos Aires, è l’eccezione alla regola: non un anacronismo, o un orrido pastiche di stili architettonici, ma un simbolo fortissimo e immediatamente percepibile, almeno per i membri della setta.
I “770″ esprimono in positivo la stessa pulsione che ha portato allo sfacelo della “cagada de Pessac”, il villaggio progettato e realizzato da Le Corbusier secondo i più rigorosi principi modernisti dove nessuno voleva abitare, e dove gli sfortunati assegnatari delle proprietà hanno con il tempo alterato le case con aggiunte e decorazioni, cercando di riportarle ad un aspetto e ad un linguaggio dell’architettura più umano, tradizionale e soprattutto comprensibile.